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lunedì 28 ottobre 2013

C'era una volta...

Il mio paese non si chiama mai per nome, ma per riferimenti. 
Il nostro paese è sempre un'esclamazione, un ricordo, una gioia racchiusa nelle acconciature delle donne, un turbamento trattenuto in uno sbuffo dei nonni.
Il nostro paese è un'idea comune che appartiene allo stesso modo a tutti e a uno solo: "Il mio paese!".
La gente del mio paese è orgogliosa di essere dello stesso paese del papà di Michele Santoro, che ha fatto per tutta la vita il macchinista di treni a Salerno.
Al mio paese ricorrono sempre gli stessi nomi. Il macellaio di una volta, contò, soddisfatto, sorridendo: "Dieci Ntonio e Ntoniuccio e nu Peppe sulo!".
"Giuvanno e Francisco so' 'na possibilità luntana!"
La gente del mio paese, nel ricordo, fa festa quando si sente sola. C'è sempre qualcuno che inventa un'occasione per stare insieme. Una volta era così nella realtà, prima che si chiudesse la sala giochi e l'ultimo bar. Hanno aperto altri bar, adesso. Non sono gli stessi di allora.
I vecchi del mio paese non ci hanno mai fatto sentire poveri. Ci hanno raccontato la vita attraverso la fatica e la ricompensa che veniva dalla terra. Tutti hanno raccolto almeno una volta ciliege dagli alberi. Alberi a caso. Alberi di tutti. I proprietari dei campi facevano finta di non sapere che la sera bande di ragazzini andavano a devastare il loro raccolto. Il giorno dopo quando ci incontravano ci salutavano contenti e in cuor loro erano felici di saperci sazi di colpe e di spavento. Nessuno ci aveva accusati: l'avevamo scampata un'altra volta, ridevamo, illudendoci.  I proprietari dei campi trottavano sugli asini, con le gambe divaricate, lo sguardo stanco mentre alle loro spalle un sole rosso si spegneva a poco a poco. 
I vecchi avevano quarant'anni. A cinquanta erano già ultracentenari.
Lo zio di Michele Santoro, era altissimo: "Zio Francesco!". Aveva il piglio serio e deciso, ma il sorriso sempre sincero affiorava sulle labbra, quasi a incoraggiare il saluto o la risposta.  Sua moglie, aveva i capelli ricci, agile e disponibile. Si fermava il tempo di un saluto a casa con mia madre, quando passava di ritorno dal forno con la pagnotta di pane sotto lo scialle blu. Zio Francesco indossava un mantello nero, a ruota, con un gancio dorato da una parte all'altra del collo.
Le sere d'inverno capitava di assistere a vere e proprie sfilate di mantelli neri e d'oro, che non si mettevano in mostra ma tratteggiavano sentieri di dolcezza lungo le linee dei muri, per scomparire dietro la luce di un lampione che penzolava tra le pietre chiare e leggere dei tufi allineati negli angoli delle case.
Le donne del mio paese erano piene di misteri e di segreti, che annunciavano la primavera tutte le volte che andavano a messa. Erano piene di rosari durante le funzioni, cantavano facendo a gara. 
La politica al mio paese era sempre questione tra pochi. Anche se tutti venivano coinvolti, E tutti dicevano sì a tutti. Ma solo in prossimità delle elezioni. Solitamente parlavano di altro. La terra e il raccolto erano gli argomenti di maggior interesse.
Tra ragazzi, d'inverno, si raccontavano storie di fantasmi, di morti resuscitati, di macabre visioni. C'era chi giurava di aver visto suo zio e suo nonno che gli erano comparsi davanti, vivi e vegeti, in campagna, solitamente durante la vendemmia. Naturalmente seguiva un coro di allusioni dissacranti, di risate, di lamenti risentiti. Qualche volta tutto sconfinava nella lotta e nel parapiglia, ma solo per la rappresentazione e concludere in questo modo un'altra giornata.









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