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sabato 29 gennaio 2011

Autostima

Metto da parte ogni considerazione ulteriore riguardo alla meraviglia e alla contemplazione di questo tempo favoloso che tutti stiamo vivendo. Anche se qualcuno non vive propriamente, eppure in quanto vivente è vivo anche costui. C'è chi muore, ma anche la morte fa parte della vita; di conseguenza, è vivo anche chi non è più vivente. Non è un gioco di parole, neanche di prestigio, neanche irriverenza verso i morti. E' irriverenza verso i vivi, che sono morti pur essendo vivi, e combinano guai e disastri, coi loro modi, i loro gesti, la loro maleducazione, il loro egoismo, la loro autostima, la disistima totale verso il prossimo, che avrebbe per suggerimento divino bisogno dello stesso amore che viene rivolto al sé.
I morti sepolti, quelli almeno sono vivi nei nostri ricordi, e ci sostengono coi loro sussurri, ci invitano a diventare uomini, a essere uomini, a superare vita e morte con la grazia e il dono dell'anima. Non chiedono niente per sè queste anime celesti, ma reclamano un eterno riposo per il mondo perché non muoia soffocato da chi urla e chiede per sé autostima, chiede per sè quella stima di sé che non potrà mai trovare chi non ha trovato la stima di ogni cosa, almeno di qualcosa o di qualcuno che sia diverso da sé. Un eterno riposo, perché riposi in pace chi ha lasciato la terra, è il gesto più semplice di chi è alla ricerca di autostima. L'autostima si cerca attraverso le azioni, i pensieri, le virtù da dedicare alla vita, in tutte le sue forme. Chi chiede e cerca per sé è morto definitivamente, e nessuno potrà suggerirgli niente che abbia valore per sé e per il prossimo.
Tutto ciò che è auto è negazione. Non si autovive, non si autoparla, non si automangia. Semplicemente: si vive, si parla, si mangia. Si ama, senza autoamarsi. Si respira. Si sogna. Si sceglie. Si guarda. Si pensa. Se opponessimo a queste azioni autoazioni sarebbe la fine del mondo. Essere è il fine, la fine è autoessere.
Si cerca e si chiede la stima, perché degni si è del mondo, che riceve e si nutre della nostra stima: dei nostri pensieri, della nostra bellezza, della nostra umanità.
Un mondo pulito, senza auto, è un mondo di uomini vivi, che includono i morti, vivi anch'essi e presenti nel culto di chi li custodisce nel cuore e nell'anima

mercoledì 19 gennaio 2011

Cornell Woolrich, il cinico: l'autore dell'Angelo nero

Su Woolrich si è scritto di tutto e da più parti, dando diverse spiegazioni sulla sua narrazione. Qualcuno lo ha definito ansioso, e in effetti l'ansia è presente nel suo sguardo, lo sguardo di uno dei più essenziali dei narratori. La parola è sotterfugio, in realtà, è sostegno all'azione di personaggi tutti interiori, che manifestano solo l'apparenza, nascondendo ossessioni molto più gravi e remote. La tensione si accumula insidiosa e impotente, mentre la vita scorre nei dubbi tormentosi di gesti appena pronunciati, di manie mai svelate, che rappresentano un cumulo di errori e di inganni, facendo precipitare gli eventi verso il destino implacabile di una morte che prende alle spalle, dove l'inganno colpisce l'autore troppo spesso e non la vittima designata. Il confronto si snoda tra cinismo e ingenuità, tra ambizione ostentata e accettazione di un ordine incomprensibile, che è disordine, che è rovina e a volte salvezza insperata. Woolrich si apre ai suoi personaggi affidando loro uno sguardo sul mondo che è contrario ai loro sentimenti interiori, come se volesse depistarli, o metterli in allarme: l'ingenuità a volte è troppo evidente per non destare sospetti, così come le certezze di chi è borioso non gli fa intravvedere la possibilità del pericolo, che è insito proprio in quelle certezze.
Non si perde in iperboli inutili Woolrich, in descrizioni puntigliose. Non tratteggia le figure con particolare meticolosità: basta un accenno, un segno. Non ricorre neanche alla metafora, sembra non esserne attratto. Ogni descrizione è un pretesto solo per dare sviluppo ai sentimenti contrastanti, alle tensioni che ogn'uno si porta con sé, sperando che nulla gli accada.

"Non può farcela, lo so bene, non riuscirà mai a entrare superando lo sbarramento; ma potrebbe sempre fare un tentativo, ha abbastanza spazio per farlo. Il pezzo di strada che ha davanti è ancora sgombro e senza intralci, e potrebbe tentare di attraversarlo di corsa, prima che gli piombino addosso, lo malmenino e lo rimandino indietro. E' il gesto che conta, non il risultato.
Ma non è così che vanno le cose, continuo a ripetermi con triste cinismo. Non nella vita vera; solo nei nostri giuramenti da circolo universitario o nelle investiture massoniche, nei nostri film di cow boy e nei fumetti. Perché, contrariamente a quanto pensava l'umanista del diciassettesimo secolo, ogni uomo è un'isola completa in se stessa, e mentre affonda, intorno a lui i piedi continuano a muoversi, dal nulla al nulla senza tempo da perdere."

giovedì 13 gennaio 2011

Incontro con gli alieni

Entrato per caso in un blog di letteratura cerco di parteciparvi con i miei commenti.
I commenti in diretta sono di autori che si parlano addosso, senza ascoltarsi, assentendo su assolute paranoie, la sostanza delle quali potrebbe assomigliare ad un dialogo come questo: “Oggi piove”, afferma qualcuno. “Certo, certo” rispondono in coro gli altri.
“Ma è assurdo,” tento di far notare loro la verità. “Non piove, signori carissimi, non piove. Vi state sbagliando.”
“Certo che un tempo come questo non si era visto da anni,” continuano tra loro, senza dare alcun valore alle mie “intromissioni!”; ignorandomi, convinti che voglia provocarli. Mi vivono in questo senso.
“Ma guardate, che non voglio disturbarvi! Continuate pure se vi piace, ma la verità è un’altra. State dicendo cose non vere, che vi fanno male per giunta. Che fanno male anche a chi, per sbaglio, entra in questo blog e legge le vostre follie,” provo a farli riflettere su quanto scrivono, per far vedere loro la realtà.
C’è anche il commento di qualcuno che si lamenta perché sarebbe voluto uscire, fare una passeggiata, se il tempo fosse stato più bello. “Peccato!” scrivono e sospirano, ignorandomi; nutrendo cattivi pensieri sulle mie “vere” intenzioni.
“No! Signori, non ho nessuna intenzione di contrapporre le mie parole alle vostre. Non sono entrato nella discussione per dire parole contro di voi, per scriverle veramente. Le mie parole sono lontane da ogni volontà di prevaricazione, di presunzione, di mancanza di rispetto. Non voglio mancarvi di rispetto; anzi, proprio perché ho rispetto per voi e per la verità, mi sono premurato di avvisarvi che non piove. Soddisfate pure il desiderio di quella passeggiata, perché davvero non piove!”.
“Eh, " continuano con sospiri maligni quei signori, celando la rabbia per quell’intruso che sta facendo perdere loro la pazienza. Ritornano a disperarsi per le condizioni pessime del tempo. Qualcuno non scrive più, sembra scomparso. Ma poi riappare all’improvviso e urla in modo osceno parolacce, minacce, pensieri sconclusionati. “Piove!” conclude, quasi come sfida verso quell’intruso. “Piove, è chiaro? Piove! Piove! Piove!”
Il curatore del blog avverte l’intruso che gli interventi devono essere in linea con il contenuto della discussione aperta: “Ogni altra provocazione mi vedrà costretta a cancellare i commenti!” mantiene sospesa la frase con una serie infinita di puntini sospensivi, con un linguaggio da codice alfanumerico.
“Mi dispiace, “ concludo quell’incontro spiacevole. “ Non sono abituato a parlare con gli alieni. Vi lascio ai vostri Bip! Forse su Marte sta Piovendo davvero!” il dubbio si insinua all’istante nella mia mente, cominciandoli a considerare davvero di un altro pianeta.
“Vaff…” rispondono tutti insieme, intanto che il curatore del blog, coerente con il suo assunto precedente, cancella il mio commento e lascia tutti quei segni osceni, fulgido esempio di letteratura aliena.

Jean Claude Izzo: maledetto, ma non troppo.

Nei romanzi di Izzo si anela la pace, in una Marsiglia in cui le razze si sono assembrate tra cielo e mare, dove la diffidenza pervade le coscienze e le fa rinchiudere in una cerchia di società che è appartenenza etnica. La scrittura rimanda a sapori e gusti propri delle razze. Un odore di miseria avvolge l'intera città, un odore di stanchezza, di sudore e altre secrezioni . Eppure traluce un odore di speranza, che abita le anime facendole superare la stanchezza delle divisioni. A volte è indulgente, tracciando lineamenti di uomini in cui l'appartenenza è solo caso, mentre nel fondo dei desideri c'è il piacere di sentirsi uguali, accolti dentro una città che rimescola ogni destino e ad ogn'uno è dato esistere cercando una dimensione di francesità, anche se ibrida. In realtà i francesi autoctoni sono lontani dalla narrazione, rinserrati in quartieri che cercano una pulizia messa a rischio dai quartieri limitrofi, in cui italiani, spagnoli e arabi (beurs) animano le azioni e le gesta di eroi maledetti, destinati alla morte precoce o alla cattività delle galere.

Sentimentale appare Izzo, disgustato e attratto dalle descrizioni di ceffi da strada e prostitute. Ripara nelle atmosfere di sottofondo del blues di B. B. King o delle sonorità jazz della malinconica Billie Holiday. Anche Paolo Conte trova il suo spazio nell'animo dello scrittore. Mentre ritmi caraibici descrivono l'intensità delle notti trascorse insieme a una prostituta di origine ispanica, intensità dei personaggi più che dello scrittore Izzo. Egli rifugge la volgarità anche nel linguaggio, preferendo alla lascivia del gergo dei personaggi il suo sogno poetico.

lunedì 10 gennaio 2011

L'anno vecchio se ne va, col suo carico di neve

Gli auguri per l’Anno Nuovo si fanno. E’ buona educazione, che significa rispetto profondo e speranza che l’anno nuovo porti gioia alle persone a noi care, e soprattutto a chi non ci è caro, a chi ci è del tutto sconosciuto, e chi non è degno nenache della speranza di un futuro migliore. Pensare che qualcuno non sia degno di noi e dei nostri auguri è un’ipocrisia sentimentalistica, che riporta a noi, al nostro giudizio, che non è assolutamente la verità dei nostri simili. C’è chi è arrabbiato col mondo, per le sue ingiustizie, almeno così sono percepite da chi trova in sé tutti i motivi per maledire l’umanità e le sue contraddizioni. Si sente escluso dal bene che gli ha dato in eredità solo maledizioni. Allora è a questi che l’animo pio, l’animo giusto, si rivolge con il suo sguardo, con la parte intima dell’anima, e gli augura il bene, che finalmente possa rendergli quell’attenzione che ha tanto desiderato senza essere stato mai ascoltato. L’augurio di un anno di felicità ad animi incupiti dalla tristezza e dalla rabbia è il gesto vero di affetto da parte di chi è giusto nel cuore.

Il pensiero va anche a chi non è più in mezzo a noi, tra gli abitanti di una terra che non godranno più delle carezze e dei baci di chi si è curato di farli crescere, di chi li ha nutriti di bene con il suo sguardo e il suo sorriso, di coloro che mai si sarebbero aspettati tanta infelicità nei cuori dei loro figli ora che sono rimnasti orfani di quel bene.

Io me li ricordo tutti quegli sguardi di madri e padri che ora non ci sono più. Mi ricordo i loro sospiri affannati per l’anno vecchio che li aveva fatti tremare per una notizia di violenza appresa alla televisione, mentre andavano in onda immagini in bianco e nero. Mi ricordo la loro disperazione per una tassa nuova da pagare, per la difficoltà di mettere insieme una somma per comprare un paio di scarpe nuove ai figli; mentre loro potevano tirare ancora un altro anno con quelle strisce di cuoio rimesse a lucido con un colpo di spazzola.

Erano le stesse difficoltà, comuni a tutte quelle madri e a quei padri che in silenzio tremavano e speravano in qualcosa, in un miracolo. E le nonne coi rosari, io me le ricordo. Risento i loro sospiri, i loro bisbigli pieni di fiducia e di rassegnazione: “Sia fatta la volontà di Dio”.

Ma a Capodanno tutti si trovavano e si facevano gli auguri, si cercavano, si mettevano in cammino, di casa in casa, degli amici e dei parenti, e passando davanti alla casa di qualcuno che aveva bestemmiato contro la loro casa si facevano il segno della croce, e pregavano per lui, con la speranza rinnovata nel petto, sotto gli abiti scuri pesanti per l’inverno.

Io mi ricordo di quei baci, di quei sorrisi. Mi ricordo le risate di chi in quel modo scacciava la sciagura dell’anno vecchio. Sorridevano fiduciosi che l’Anno Nuovo sarebbe stato un anno carico di gioia, di meraviglia, di fortuna: E se così non fosse stato, pensavano in cuo loro, ci sarebbe stato un altro Capodanno che avrebbe rinnovato gioia e felicità, perché con l’esperienza degli errori fatti avrebbero avuto un’altra certezza su come affrontare la vita. “L’anno vecchio se ne va/ col suo carico di neve/ e mai più ritornerà/ sopra i monti e su nel cielo”. Il coro dei bambini ripeteva, e correva a far festa in braccio a i nonni, ai parenti stretti, agli sconosciuti, a chi era entrato per portare la sua speranza di auguri dignitosi. Poi si mangiava, cose che i bambini non capivano. Ma erano buone, si capiva dagli sguardi delle mamme, che li imboccavano. Tra scintillii di bicchieri pieni di vino non troppo chiaro, messo in bottiglia dopo la vendemmia, sistemato sopra una tavola di legno, in alto, dove nessuno sarebbe mai arrivato – ci voleva la scala – che il padre aveva tirato fuori da dietro alle botti, finalmente ora tutti potevano brindare: ora che era stato stappato e portato a tavola. Si beveva facendo festa, apprezzando quel vino per il piacere del papà, che era sicuro di aver fatto un’ottima figura coi fratelli e le sorelle. Qualcuno storceva il naso, per indispettirlo. Ma il papà non se ne curava, perché era sicuro che il suo era più buono di quello del cognato, che aveva storto il naso per invidia. Il suo vino l’aveva assaggiato, e sapeva di aceto: quindi non facesse tanto il sofisticato, perché di vino lui proprio non se intendeva.

“L’anno vecchio se ne va/ col suo carico di neve/ e mai più ritornerà/ sopra i monti e su nel cielo”. Continuava la festa, coi baci e le carezze, i sospiri e la fiducia di un altro anno pieno di novità. In cuor loro sapevano che la novità dovevano essere i loro gesti, le loro azioni giuste, la loro fatica, il loro impegno dovuto. “Auguri!” sollevavano i bicchieri. “Forza e coraggio!” Aggiungevano, prima di portare il vetro alla bocca. “Un altro anno ci aspetta! E noi lo accogliamo con il cuore e le braccia aperti alla novità!”. Bevevano. Poi sospiravano, bisbigliavano, accendevano gli animi di speranze.

Ridiamo è Natale

La poesia, così come ogni forma d'arte, è unica e necessaria se indaga la verità delle esperienze umane, dove il bello non è artificio ma condanna o esaltazione. Dove ogni lamento è lamento di tutti, poiché la gioia non può essere privilegio di pochi. Sono i lamenti che arrivano al cielo, la gioia è già delle altezze celesti. La poesia celebra il dolore dell'uomo che si dispera per una gioia che è lontana dalla terra ridotta a cumulo di macerie. E’ la mancanza di speranze che origina il moto di ribellione dell’anima, che cerca in se stessa la bellezza di essere soffio divino, lontana dai tumulti di una folla corrotta che celebra Natale come illusione di salvezza o come follia, senza possibilità di pentimento.



Ridiamo, è Natale

Lasciate che io viva la vita ai margini del bosco
lontano dai leoni del circo
e nella furia di selvaggi pensieri
trovare l’idea che porta al mistero.

Miseria, miseria dei popoli
cantano i resti di una cattedrale
che più non vale.
Di tanto in tanto ancor s’ode
il ruggito simile al pianto del leone foresto
che più non impaura.
Non vi lascia il cuore sgomento
Il canto sui tetti delle civette?

Ridiamo, ridiamo è Natale.
Sono i resti di una cattedrale.

Lasciate che io viva la vita ai margini del bosco
lontano dai leoni del circo
e nella furia di selvaggi pensieri
trovare l’idea che porta al mistero.

domenica 9 gennaio 2011

I miserabili

O questa terra è popolata da miserabili o da illusi arroganti.
Ogni giorno ci si imbatte in accattoni che ci chiedono qualcosa. Alcuni chiedono l’elemosina con dignità, sono i veri miserabili. Sono coloro che privi di risorse non vivono la loro condizione come un’umiliazione, ma come una condanna a cui li ha sottoposti l’esistenza. Non cercano le cause della loro miseria, non maledicono il mondo e Dio, non si scagliano contro l’uno e l’Altro, ma combattono la loro battaglia quotidiana contro la fame e contro le avversità della vita. Poveri, nei panni logori, nello sguardo fiero, nell’anima candida, si presentano al mondo e chiedono la carità. Non ricorrono a travestimenti per ingannare chi ha qualche centesimo in più di loro, non invidiano quella fortuna, non reclamano la stessa fortuna, ma chiedono secondo la loro dignità: perché è dignitoso chiedere quando si ha bisogno.
In realtà, i poveri che si incontrano per strada sono una piccolissima parte dell’umanità miserabile che si incontra in altri luoghi. Dove le facce non sono dignitose, gli sguardi non sono di anime candide. Neanche sono dignitose le intenzioni e le manifestazioni di questi miserabili che si credono svegli, furbi, capaci di poter prendere dagli altri senza chiedere. Convinti, nello stesso tempo, di saper camuffare la loro povertà. Gli abiti sono logori quanto quelli degli indigenti, anche se non lo sanno; e neanche sanno che la loro dignità non vale un sorriso dei veri poveri. Vestono come maschere di carnevale, troppo spesso sono vestiti di stracci buffi, colorati, secondo le mode, che qualcuno più povero di ispirazione di loro gli mette addosso. Vestiti da buffoni si recano a lavoro, dove combinano guai e cattiverie contro l’umanità ritenuta più debole. Vista più debole dai loro occhi che non sanno guardare. Si mettono al servizio di chi li comanda dall’alto, un altro povero che ha strisciato, si è abbassato alle peggiori umiliazioni, per conquistare miseramente quel posto. Questi grida e sbraita contro quell’altro, che corre senza una direzione. Sbuffa, assillato da preoccupazioni fuori luogo per una mente giusta, la mente di chi saprebbe gridare contro quell’altro che grida dall’alto, il quale si è guardato bene dal mettersi al fianco una mente così. Al fianco, non sotto. Perché una mente giusta non sa stare sotto, neanche sopporta di stare sopra qualcun altro. Una mente sapiente e giusta sa stare allo stesso piano, perché non è spaventata dal confronto, perché non è l’illusione di essere che le dà dignità. Non teme neanche la minaccia di perdere il privilegio dell’autorità del buffone, poiché è consapevole che quella condizione si addice a chi è buffone per mancanza di dignità.
Una mente sapiente e giusta deve fare i conti con questi poveri, illusi di essere.
Sono dappertutto questi poveri illusi.
Sono seduti accanto a noi in treno o negli autobus, facendo sfoggio dei colori osceni dei loro abiti logori, come logore e colorate sono le calze e le scarpe da maschere povere. Girano lo sguardo se incrociano quello degli altri, fingendo indifferenza, forse temendo di essere scoperti in una povertà che non sanno riconoscersi. Credono di essere invidiati, piuttosto, perché di invidia vivono, quel sentimento vile di chi è povero nell’anima. E a questa povertà non c’è rimedio.
Si incontrano in altri posti, i più impensati. In posta, agitano i loro piedi di lana colorata, sbuffando perché ci mette troppo tempo l’operatore dietro lo sportello con un cliente che è arrivato prima di loro. Poi sorridono, in modo finto, quando arriva il loro turno, e si piazzano con autorità davanti all’operatore, che sbuffa, poiché ha riconosciuto la povertà di quegli illusi. Minacciano azioni pesanti contro l’operatore, che continua a sbuffare. Chiedono del Direttore, della caserma dei carabinieri, del prete, del Ministro delle Poste e anche del Ministro di Dio.
Sorridono, invece, quando devono chiedere informazione su qualcosa che ha attirato la loro curiosità. Si interessano dei saldi di stagione, per portare a casa qualcosa di valore a poco prezzo, per apparire ricchi senza esserli. Chiedono lo sconto al ristorante, sperando anche qua di fare bella figura. Ma la figura di pezzenti la fanno sempre, perché sono pezzenti nati.
Altri pezzenti illusi di essere si propongono in attività intellettuali: attori, scrittori, cantanti. Copiano tutto, usano cliché già sperimentati da altri che hanno dato buoni risultati. Imitano, rubano parole, pensieri, intonazioni di voce. Non viene niente da loro, che hanno un’anima senza dignità e ispirazione. Si presentano sul palco di un teatro, si atteggiano, si arrovellano in complicati intrichi di suoni senza forma e melodia. Qualcuno applaude, qualche povero illuso che ha chiesto lo sconto per un posto in ultima fila, perché le prime file sono occupate da altri pezzenti in abiti colorati che hanno il diritto di un posto riservato alle autorità. L’autorità dei pezzenti.
Fuori dalle sale di cinema e teatri i poveri di risorse materiali, quelli con gli abiti logori, con la dignità nello sguardo e nella mente, nel cuore e nell’anima, nelle dita sporche di vita vissuta, nella gentilezza delle speranze tradite, tendono la mano avendo pietà di quei pezzenti che passando si girano dall’altra parte.

sabato 8 gennaio 2011

Oudeneia e Parresia, secondo Filone di Alessandria.

Oudeneia è termine greco per indicare nullità. Detto così parrebbe voler rimandare a "mondi" aventi valenza negativa, a un'assenza. Se riferita all'uomo acquisterebbe addirittura valore di offesa. E come tutte le cose apparenti - che irritano gli incapaci e i diffidenti, nel loro significato immediato, frutto di istinto più che di volontà - in animi più inclini alla meditazione, suscitano interesse e meraviglia, ancora più grande quando il significato si svela come scoperta dell'anima, come approdo a una verità che dà sostegno alla meraviglia.

Parresia è altro termine greco che indica libertà di parola. La libertà non consiste nella facoltà di saper sovrapporre la propria parola a quella di un altro, di volerlo addirittura, ma è capacità di dire il vero, che deriva dalla rinuncia alla parola, mentre si è dato ascolto alla parola dell'anima, alla tendenza alla conoscenza, e infine alla sapienza.
Parresia e oudeneia sono facoltà dell'animo. Nell'animo si ricerca la presenza di sé, e all'animo ci si rivolge con parole vere. Fuori da sé è apparenza. E l'apparenza non appartiene alla sapienza, ma è propria di chi è oudeneico nell'animo, di chi l'animo non l'ha mai incontrato, non l'ha mai sentito, e per questo non ha potuto mai rivolgersi con verità. Ha simulato una parvenza di esistenza, di facoltà dialettica. Ma dialettica e presenza sono trascendentali, non riguardano l'incontro con la Terra: abbracciano l'universo, e attengono all'abbraccio dell'uomo da parte di Dio.

La libertà di parola ed il rispetto nei confronti di Dio nascono in Abramo dalla consapevolezza della propria oudeneia

22 Ma osserva, ancora, come l'arditezza si mescoli alla deferenza. Le Parole: "Che cosa mi darai?" (Gen. 15, 2) mostrano l'arditezza; la parola "Signore", la deferenza. La Scrittura suole usare soprattutto due epiteti per indicare Colui che è causa: Dio e Signore. Ora, invece, non usa né l'uno né l'altro, ma il termine "Padrone", in modo molto più rispettoso ed assai più pertinente. Certamente Signore e Padrone sono ritenuti sinonimi. 23 Ma se il soggetto a cui si riferiscono è uno ed identico, i due epiteti differiscono tuttavia nel loro significato: "Signore" (Kyrios), deriva da forza (Kyros), vale a dire ciò che è ben saldo, e si oppone, invece, a ciò che è instabile e debole. "Padrone" (despotes), deriva da "legame" (desmos), dal quale, credo, debba farsi derivare anche il termine "paura" (deos).



Filone, L'erede delle cose divine.