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mercoledì 22 giugno 2011

"L'Educazione come "Amore Del Prossimo"

"L'Educazione come amore del prossimo", di Luigi Ventura, Rivista Pedagogica, Anno X - N. 5-6, Dicembre 1960

La mattina, al momento di prendere il tram o l'autobus per recarci al lavoro, tutti abbiamo fretta: ci si spinge, ci si pesta i piedi, ci si arrabbia, si commenta salacemente, si finisce per imprecare contro passeggeri, conducenti e fattorini, contro le aziende tranviarie e il Comune, contro il Governo, i governanti e i governati, contro tutto e contro tutti. E come dalle labbra di molti escono frasi, parole amare o "moccoli" volgari di indubbia inciviltà cittadina, così dagli occhi di ciascuno sprizzano molte volte scintille di odio, di insofferenza, di disprezzo ma non di compassione... A guardarci bene l'un l'altro così irritati, con facce e labbra contratte, si direbbe che nessuno di noi è cristiano, o, - che è lo stesso - che nessuno di noi è educato: non c'è infatti una sola persona che tenti di sorridere, di dire una parola buona, o ceda il posto ad un vecchio o ad una povera donna carica di fagotti! Siamo tutti arrabbiati fin dal mattino, tutti indignati, tutti maldicenti contro l'umanità, contro i gerarchi, contro i ricchi, e persino contro i poveri, perché non sanno ribellarsi... (continua)  

Scritto cinquant'anni fa questo intervento di Luigi Ventura, sulla Rivista Pedagogica, sembra la descrizione dell'inizio di una giornata del nostro presente immediato. Sicuramente frutto di osservazione, non certamente di immaginazione letteraria o di effusione paranormale, l'articolo è tranquillizzante per un osservatore di un'epoca lontana mezzo secolo da quella che descrive. Questa condizione di serenità non deriva, però, dalla constatazione che il tempo trascorso abbia migliorato le condizioni umane di questa società rispetto a quella; tanto da poter credere che quella barbarie mai più possa minare un'assetto sociale che ha rinsaldato definitivamente principi di civiltà e rispetto tra gli uomini ben più evoluti di epoche passate, in cui non solo i singoli erano in lotta tra loro ma persino gli Stati, interi popoli. L'Italia era unita all'epoca, e usciva meravigliosamente dagli esiti drammatici della guerra. Nord e Sud diventavano un unico Stato, con le stessi leggi, con lo stesso desiderio e lo stesso impegno di essere e sentirsi Nazione "una e indivisibile". Mancavano evidentemente per completare lo spirito di unità nazionale piccoli accorgimenti di carattere culturale ed etico-morale, che ancora creavano qualche difficoltà di distanza. Anche in Europa gli stati erano in pace tra loro. Le guerre erano un ricordo. Non lo erano in Medio Oriente, dove Israeliani e Arabi avevano iniziato un conflitto senza fine. In occidente tutto andava per il verso giusto, in Italia soprattutto si era proiettati verso il boom economico. Questa tendenza apriva belle speranze.
Questo era il mondo, molto diverso da quello attuale. Israeliani e Arabi sono in pace, finalmente. Le religioni si tendono la mano, nella ricerca di un superamento ideologico. Gli uomini si sentono per la prima nella storia fratelli.
Forse sto sbagliando, forse non è proprio così. Quell'epoca passata, a guardar bene, è molto simile a quella attuale. E' terrifcante e nello stesso tempo è tranquillizzante. Sono passati inutilmente cinquant'anni dall'articolo di Ventura e sembra che non sia cambiato nulla. Pensavamo di essere capitati sciaguratamente in un'epoca di gan confusione socio-culturale, "priva di valori, dove ogn'uno accusa smarrimento e dubbio, e invece qualcuno prima di noi ha dovuto compiere gli stessi sforzi per sopravvivere in una barbarie che non cambia mai, neanche con le guerre. Questo, sinceramente, è molto rassicurante: perché non siamo capitati in tempi sbagliati: i tempi sono sempre uguali. Tra cinquant'anni chi vivrà potrà verificare questa verità.
(continua) E ad ogni fermata, nuovi strattoni, nuove spinte, nuove pestate di chi sale e di chi scende, mentre il fattorino continua imperterrito a dire: "avanti c'è posto", tanto da fare arrabiare e smoccolare anche i più pazienti passeggeri.
Io allora mi faccio più magro e più piccino, e, sollevandomi in bilico su di un solo piede, per non essere pestato, dico a me stesso: "Come siamo disgraziati! E' possibile che siamo diventati così selvaggi? E' possibile che ci odiamo fin dal mattino, e ci alziamo tutti con la camicia a rovescio? A che ci serve essere andati a scuola, saper leggere e scrivere, discutere di questo e di quello, essere diplomati o laureati, quando poi ci manca quel minimo di civiltà (che oggi, si direbbe - all'americana - socialità) da non saper sopportare o compatire il prossimo in nessun modo? A che ci vale la nostra lodata istruzione, l'aver letto tanti libri, quando poi non abbiamo letto - o non ricordiamo più d'aver letto - il Vangelo, che ci raccomanda l'amore del prossimo?  [...] Ebbene io mi domando: oggi s'insegna veramente, a scuola, quella charitas cristiana? Non siamo noi stessi, noi adulti, i veri colpevoli? Cosa facciamo noi maestri e professori a tal proposito? Cosa facciamo noi genitori, in famiglia, verso i nostri figli?
Rispondo: nulla, o quasi nulla! Maestri e genitori, noi badiamo alle promozioni, alle pagelle, ai diplomi o ai titoli, perché questi soltanto ci danno diritti da accampare... Ed oggi, da parte di tutti, colla cosiddetta istruzione, s'insegna a conquistare tutti i diritti del cittadino e soprattutto il diritto al benessere e alla felicità materiale; ma nessuno insegna che prima dei diritti ci sono i doveri: e la pratica di questi doveri costituisce la vera educazione, la quale si identifica e si acquista, soprattutto, colla pratica dell'amore del prossimo!

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